- Sei qui:
- Home
- Rassegna stampa
- 2016
- Vocidicittà: Esclusiva VdC – L’associazione Hera per il diritto alla genitorialità
http://www.vocidicitta.it
CATANIA – Pazienti per i pazienti. È con queste brevi parole che forse possiamo sintetizzare l’avventura dell’associazione Hera, anche se il rischio di essere riduttivi è dietro l’angolo. Garantire il diritto alla genitorialità è lo scopo fondamentale della ONLUS in questione che ha totalmente stravolto, con le sue battaglie, la medicina in Italia. Pazienti e operatori, uniti insieme per un lungo percorso impervio, fatto di cadute, stravolgimenti e tante, troppe controversie.
I festeggiamenti in occasione dei 20 anni dell’associazione
20 anni oggi. Il tempo passa per tutti, insomma. Cosa vi portò, così tanto tempo fa, a fondare la prima ONLUS per lo studio e la ricerca sulla fertilità?
«L’associazione Hera nasce all’Ospedale Vittorio Emanuele, il posto in cui lavorai e fondai il centro per visitare i pazienti infertili nel 1994. La città di Catania, ai tempi, non dava assistenza a queste coppie, le strutture pubbliche mancavano dei mezzi necessari e questi appartenevano esclusivamente ai privati. Cominciai così a raccogliere tra gli specializzandi qualcuno che si volesse occupare di infertilità, tenendo conto che a quei tempi le tecniche usate erano appena sbarcate nel mondo medico – parliamo, nello specifico, della ICSI, poco conosciuta in Italia. Partimmo da zero insomma, e da zero pensammo di creare un’associazione di pazienti per raccogliere fondi al fine di sostenere il centro, che faceva sempre parte di una struttura pubblica. I pazienti, spinti dagli esorbitanti costi delle strutture private, risposero in maniera attiva, per finanziare una tecnica totalmente all’avanguardia. Tra chi pensava che fosse una grande bufala e chi pensava che non avremmo mai combinato nulla di buono, cominciammo a lavorare. Dopo circa un anno e mezzo i pazienti ebbero i primi risultati, arrivarono le prime gravidanze e conseguentemente i privati andarono in sofferenza. In tutto questo il nostro piccolo centro era visto come una minaccia».
Il ’96, anno di fondazione, è un anno cruciale dunque. Quando arriverà il “meglio”?
«Il meglio deve ancora venire. Donazioni, serate di beneficienza, cene sociali: la raccolta fondi all’epoca andava a gonfie vele e, conseguentemente, le attrezzature potevano essere acquistate con facilità. Tutto è cambiato nel 1997, quando feci la prima fecondazione in vitro e fu questo, di fatto, l’evento che scatenò il putiferio sul nostro centro creato da soli 3 anni. Nel frattempo i fondi crescevano, fino a quando venne portata in ospedale la prima macchina per fare la famigerata ICSI. Più tempo passava, più l’associazione diventava di dominio nazionale, l’attenzione della stampa era al massimo, i privati cominciavano a chiudere e i risultati pratici crebbero a dismisura: eravamo una piccola realtà contro tutti. Esattamente un anno dopo, il consiglio d’istituto del Vittorio Emanuele decise di chiudere il centro».
Si doveva ripartire da zero, quindi, ma da dove?
«Inizialmente ci dissero che avremmo dovuto collocarci in un’altra struttura pubblica, ma così non fu. Alla fine andammo alla Clinica Gretter. Tutto il caso mediatico precedente doveva buttarci a terra, doveva chiudere l’esperienza della “Hera”, ma il risultato fu esattamente l’opposto. I pazienti si moltiplicarono e i privati continuarono a chiudere, nonostante il grande appoggio della politica che con gravi colpe aiutò quest’ultimi a discapito della nostra situazione. Nel 2003 lo spazio era troppo esiguo e decidemmo (stavolta senza essere costretti da nessun potere) di spostarci in un’altra struttura, fino a quando comprammo e inaugurammo, 7 anni dopo, quella che è la sede attuale dell’associazione, pensata e costruita esclusivamente per questo lavoro».
Eppure, nella vostra ventennale storia sono stati tanti i passi cruciali che hanno dato un contributo senza eguali al mondo medico.
«Esattamente. Nel 2000 fummo i primi in Italia a far nascere bambini sani da una coppia di talassemici grazie alla diagnosi genetica di primo impianto. Un risultato enorme, che andò a finire su tutti i giornali. Ma la vera battaglia, quella legale, fu combattuta nel 2004, all’arrivo della legge 40. Le tante ristrettezze di questa legge lesero fortemente i diritti dei pazienti dell’associazione, i quali cominciarono a fare una campagna e raccogliere le firme per il referendum del 2005. Il quorum non venne raggiunto, sulla stessa falsa riga dell’ultimo referendum sulle trivellazioni, con la Chiesa che giocò un ruolo fondamentale proponendo una situazione di disinteresse generale. Così l’associazione “Hera” riprese il comitato di difesa per attaccare la legge 40. Vennero fatti ricorsi in tutti i tribunali per il divieto della diagnosi preimpianto e prima i magistrati riconobbero una lesione del diritto garantito dalla corte costituzionale, poi quest’ultima, nel 2009, cominciò a cambiare la legge. La stessa trafila venne eseguita per il divieto di fecondazione eterologa, fino a quando anche in questo punto, nel 2014, venne concessa definitivamente questo tipo di PMA. Ultima ma non ultima tappa relativa alla legge 40 portò la diagnosi preimpianto ad essere concessa anche alle coppie fertili. Parliamo di un risultato recentissimo, conseguito solo un anno fa».
Cosa pensate di fare nei prossimi anni?
«L’associazione Hera ha reso possibile ciò che prima era impossibile, cambiando la mentalità sulla riproduzione. Fare il congelamento ombrionale adesso non è più fantascienza, così come inseminare più di 3 ovociti, fino ad arrivare alla recentissima fecondazione eterologa. Tutto questo ha eliminato quel business su cui si fondavano i grossi guadagni di alcune nazioni. In concreto: in Spagna per fare un qualunque trattamento sulla PMA il prezzo si raddoppiava per coloro i quali arrivavano dall’estero e il guadagno complessivo poteva arrivare a qualche centinaio di milioni all’anno. Adesso l’associazione si sta mobilitando affinché la riproduzione assistita entri a far parte delle convenzioni, dunque del sistema medico pubblico. Chi non vuole pagare i trattamenti, in poche parole, è costretto ad andare, almeno, nel nord Italia. Si sta pensando inoltre di creare un “Centro Studi Hera” a livello nazionale, per avere un punto di riferimento culturale e scientifico che possa promuovere le tematiche legate alla procreazione medicalmente assistita. In questo modo si alleggerirebbero ulteriormente quelle che sono le tempistiche necessarie che vanno dalla semplice informazione all’arrivo della coppia in un centro per la procreazione assistita. In questo momento si parla di ben 5 anni, dunque l’obiettivo principale sarebbe quello di snellire questo tempo eccessivo e dare una mano concreta a quelle coppie che vogliono vantare un diritto garantito anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: il diritto alla genitorialità».
Francesco Mascali